Il popolo delle Alpi: una civiltà di frontiera

Il popolo delle Alpi: una civiltà di frontiera

(tratto da Sportello Walser)

II clima era più caldo di oggi e le montagne più verdi che bianche. Dove si stendono i ghiacciai si passava sui sentieri, fra i pascoli e le rocce. Ma attraversare la cresta delle Alpi non doveva essere comunque una bella passeggiata, soprattutto quando la migrazione non prevedeva ritorno.

Eccoli, interi nuclei familiari, curvi sotto il peso di poveri fardelli, risalire dalle alte terre vallesane lungo le antiche mulattiere per divallare sul versante meridionale alla ricerca di nuovi insediamenti, preziosi spazi vitali. Nelle gerle, i bambini più piccoli: cauta protezione dall'ingiuria delle bufere. Nelle bisacce non portano le armi come si usava comunemente in quei secoli, e non solo. La loro "conquista" avviene unicamente con gli attrezzi del lavoro. E i loro villaggi, così defilati e lontani nelle testate delle valli, non ingelosiscono nessuno. Ripercorrendo i sentieri dei Walser possiamole piccole carovaniere alpine, migranti nelle remote epoche medievali. Le vie lastricate non solo dalle "piode" ma dalla fatica, trasudano ancora del loro passaggio, consumate dai calzari della storia di questa gente che legittimamente ha diritto alla qualifica di "popolo delle Alpi".


Pastori, alpigiani, boscaioli. Non sono né usurpatori né colonizzatori di terre, ma dei civilizzatori che sanno utilizzare le risorse dei territori più avari e inospitali. Lassù l'erba è rara e cortissima, ma piena di aromi dei fiori raffinati. Non ingrassa, ma profuma il latte e ogni filo è un bene troppo prezioso per essere sprecato. Come gli animali. Una mucca caduta in un burrone significa la fame e l'emigrazione. Per questo incidono nelle pareti dei passaggi aerei ma sicuri, e scalinate lunghe e solide. La neve rimane mesi e l'estate è già confortevole se dura appena lo spazio di un mattino. Ma, a fine stagione, granai e fienili sono colmi. Il frumento non cresce e i ciliegi fruttificano solo a settembre, se la stagione non è stata uncinata dal clima rigido. Invece la segale, grazie anche alle favorevoli condizioni meteorologiche del Medioevo, sopporta bene i rigori della montagna. AFindelen, sopra Zermatt, è stata coltivata per secoli a 2.100 metri di quota.


Le casere degli alpeggi sono scarne ed essenziali. Senza la calce lasciano intravedere il cielo. Talvolta cesellano i muri a secco con il letame per saldare i sassi e renderli più ospitali.
Il pane lo si cuoce nei forni comunitari una sola volta all'anno, quasi a sottolinearne pregio e valore.I Walser sono soprattutto degli abilissimi costruttori di case, blindate contro le valanghe dal legno più coriaceo del cemento. Dovevano essere forzatamente dei maestri in queste attività ergologiche, altrimenti non sarebbero riusciti a superare i grandi freddi delle alte quote: "Le alpi dai geli infami" come scriveva terrificato Tacito. Sanno adattarsi egregiamente alla "mobilità" e alla flessibilità. Le esigenze del mercato sono severamente imposte dalla sopravvivenza. Il riciclaggio è continuo ed è giocoforza trasformarsi in uomini tuttofare. Così, secondo necessità, diventano minatori, commercianti,
contrabbandieri, artigiani, pittori, someggiatori attraverso i valichi alpini e, con l'arrivo degli alpinisti, anche guide, portatori e maestri di sci.


Con le loro migrazioni gli alpeggi diventano insediamenti stabili. Dove gli altri montanari riescono a stento a resistere per il breve arco dei mesi estivi, i Walser costruiscono i villaggi, la cui solidità e sicurezza permette di sostenere il peso dei lunghi isolamenti invernali. Sepolti da enormi cumuli di neve, non temono l'ambiente ma lo rispettano con rigore. Anche la più piccola imprudenza ecologica sarebbe fatale.
Il pericolo maggiore era quello delle valanghe, che - secondo un detto popolare diffuso in tutte le valli alpine - cadono dove sono già cadute, dove non sono ancora cadute e dove non cadranno mai più. Un'imprevedibilità capricciosa e spesso fatale. 


L'esistenza è ripetitiva ma non monotona. Il calendario si srotola scandito da norme
tramandate oralmente e scrupolosamente ossequiate. La pratica religiosa non è unoptional. Il reticolo delle mulattiere permette un'osmosi sociale con le altre valli, soprattutto con la patria di origine che sta al di là di alte montagne. Ma sono tempi di camminatori eccezionali. L'autonomia è di rigore, non l'autarchia.
Il rapporto con la montagna più severa e minacciosa è quotidiano, senza soluzione di continuità. Devono "inventare" gli antidoti indispensabili per non soccombere. Al di sopra dell'orizzonte della vegetazione cresce solo l'erba dei pascoli e talvolta, come a Juf, i boschi sono lontani. In mancanza del legname il conforto del calore invernale nei fornetti di pietra oliare è assicurato dal letame messo a essiccare davanti alle baite, un anno per l'altro.


"Quanto più gli uomini sono tagliati fuori dalle vie battute, quanto più sono confinatinell'interno dei monti e rimasti alle primordiali condizioni di vita, quanto più si sono dovuti assuefare ad abitudini semplici, lente e immutabili, tanto più essi appaiono migliori, disinteressati, affabili e ospitali, nonostante la loro povertà". Queste parole di Göthe sembrano il suggello dell'agiografia dei Walser.
Una civiltà tutta virtuosa, la loro? Un mondo perduto in valli perdute? Giustamente Luigi Zanzi osserva che "i Walser non devono essere considerati come un'"isola", ma come la punta emergente di un iceberg, la cui parte sommersa è in genere l'intera civilizzazione del mondo alpino".


Come tutti gli uomini, anche i Walser hanno pregi e difetti, vizi e virtù. Ma non ci sono dubbi: essi hanno saputo sviluppare valori e risposte esistenziali che altri popoli, più "fortunati" per agi e comfort, non sono stati chiamati a fornire. Quella dei Walser è solo l'originalità commovente e la caparbietà ammirevole di una civiltà di frontiera che ha lottato per secoli sulla soglia estrema dell'esistenza.


Per questo, soprattutto oggi, conservano l'attualità dell'insegnamento e dell'educazione. E anche della nostra ammirazione.